lunedì 22 aprile 2013

Giornalismo precario: reportage da Gaza per 20 euro.

Mi sono occupato altre volte del degrado della professione giornalistica in Italia (reportage sottopagati o addirittura non pagati, precarietà assoluta, nessuna garanzia per i giornalisti free lance, nessun controllo sulle fonti, ecc.) e del rischio che questo rappresenta per la libertà di informazione. Sul sito di Franco Abruzzo www.francoabruzzo.com è pubblicata questa lettera di un free lance dal titolo: “Le mie corrispondenze da Gaza o non pagate o pagate appena 20 euro. Meglio lavorare per i media degli altri Paesi”. Questo il testo della lettera:

Caro Franco Abruzzo, vorrei informare te e i colleghi della tua preziosa mailing list sul giornalismo di un altro brutto caso riguardante la nostra professione.
Hai scritto tanto sulle condizioni cui sottostanno i giovani giornalisti ed ecco dunque quanto mi è capitato di recente.
Nel novembre 2012 sono andato a Gaza, per coprire la campagna militare israeliana nella Striscia, una notizia che ha tenuto titoli e prime pagine dei giornali per circa una settimana. Ci sono andato da inviato di un grande gruppo televisivo italiano, ma ho ricevuto tante richieste da altre testate, inclusi Il Messaggero e Pubblico.
Lusingato dalla pubblicazione su quotidiani nazionali, ho acconsentito a scrivere delle lunghe corrispondenze per questi quotidiani, spesso in situazioni di bombardamenti e di pericolo per la mia incolumità. Articoli che hanno ricevuto numerosi lodi da parte dei (capi) redattori e dei direttori di riferimento. Ora immagina quale amarezza possa lasciare ritrovarsi cinque mesi dopo senza alcun pagamento per il lavoro svolto. Pubblico infatti è stato chiuso e il Messaggero ha avuto l'ardire di pagare circa 20 euro netti per articoli da 60-80 righe.
Immaginiamo che le spese (viaggio, assicurazione di guerra, interprete) non mi fossero state pagate dalle televisione di cui sopra e che fossi andato a Gaza da freelance - formula che spesso utilizzo e a cui sono costretti tanti altri colleghi che lavorano sugli esteri - non sarei neanche lontanamente rientrato dei costi e men che meno avrei ricevuto il famoso equo compenso per le prestazioni svolte.
Che senso ha allora per un giovane giornalista mettere la propria professionalità e il proprio tempo a disposizione dei media italiani? Non menziono neanche le decine di altre testate, che pagano poco di piu o che non si degnano neanche di rispondere alle proposte inviate. Tanto vale lavorare per media stranieri, come ormai faccio, per sentirsi un "giornalista normale". O addirittura cambiare mestiere, per vedersi un migliore riconoscimento di anni di studi e di sacrifici.
E mi dispiace, perche'  l'Italia così si ritroverà senza voci indipendenti, senza informazione dall'estero e senza contenuti originali (visto che dalle redazioni ne escono ben pochi).
Temo che siamo davvero alla morte del (buon) giornalismo, con tutto ciò che ne consegue. Cordialmente,
Gabriele Barbati - Journalist

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