martedì 13 agosto 2013

Moby Dick: sublime manuale di scrittura

Forse pensando alla lotta impari tra i cittadini padernesi e il fantasma della Rho-Monza a 14 corsie ho deciso di riprendere in mano Moby Dick. Un capolavoro immortale della letteratura mondiale di cui ho posseduto 20 anni fa e letto una copia stampata dall'editore Frassinelli, tradotta da Cesare Pavese, copia che poi ho perduto, regalato, prestato, non ho più.
Quello che sto rileggendo è un'edizione di Orsa Maggiore del novembre 1995 tradotta da Lucilio Santoni. Rileggendo il libro che Herman Melville, rampollo della buona aristocrazia democratica americana, ha scritto in un solo anno, dal 1850 al 1851, mi ritrovo a considerarlo sotto un punto di vista nuovo, cioè come uno straordinario manuale di scrittura.
Il libro infatti che ha come protagonista una terrificante balena inizia con ben 15 pagine di "Etimologia (fornita da uno smunto assistente ginnasiale ormai morto)". Come si scrive il nome "balena" nelle lingue antiche e moderne dei popoli cacciatori di cetacei (italiano escluso dunque)?
E giù una fila di nomi che partendo dall'ebraico ךןך e passando da greco e latino, cita anglosassone, danese olandese, svedese, islandese, inglese, francese, spagnolo, figiano, erromanghese, arricchita dagli "Estratti (forniti da un vice vice bibliotecario)" che per metterli insieme ha "passato in rivista tutte le sterminate Vaticane e bancarelle del mondo raccogliendo qualsiasi casuale allusione alle balene".
L'inizio del libro pertanto non poteva che essere la seguente citazione: "E Dio creò grandi balene" Genesi. Insomma, prima di arrischiarsi a scrivere la sua storia un aspirante autore deve documentarsi, passare in rassegna "sterminate bancarelle e Vaticane", cioè le grandi biblioteche, ma anche le più infime librerie e banchi di libri usati alla ricerca di notizie e parole scritte sull'argomento di cui egli intende narrare partendo dal libro dei libri, la Bibbia. Fatto questo bisogna descrivere correttamente il protagonista, l'io narrante del romanzo cominciando dal nome "Chiamatemi Ismaele", i motivi che l'hanno spinto a iniziare il suo viaggio e il luogo di partenza (la Battery dell'isola di Manhattan), il momento storico (Grande campagna elettorale per la Presidenza degli Stati Uniti, Sanguinosa battaglia in Afghanistan, sembra incredibile, ma c'è scritto questo nel libro), le tappe intermedie (New Bedford) e la presa di contatto con i compagni di avventura (il selvaggio ramponiere, Quiqueg). Dopo una breve digressione sulla cucina (le due pentole di arselle e merluzzo) e una descrizione dell'isola di Nantuket e dei suoi abitanti, un trattato di cetologia con l'elencazione dei vari tipi di balena e una dissertazione sulla natura della stessa (pesce o mammifero?), si entra nel merito della divisione dei ricavi del viaggio tra l'equipaggio della nave Pequod e del valore del business della baleneria, quante navi, quanti marinai, quanti barili d'olio spillati, quante balene uccise. Infine si giunge alla descrizione dei protagonisti principali del racconto Achab, suoi ufficiali e i ramponieri. Fino a pagina 200 non si entra nel vivo del racconto, ma questa lunga premessa è godibilissima e cattura l'attenzione del lettore trasportandolo come una corrente di marea, onda du onda, verso il bordo del gorgo oscuro che inghiottirà il folle capitano Achab deciso a sfidare con la sua volontà di potenza offesa le forze della Natura, l'intera nave e tutto il suo equipaggio. Meno il narratore, Ismaele, che come Giobbe può affermare, galleggiando sui flutti, aggrappato a una bara-salvagente, " io solo sono scampato per raccontartela", in attesa che la bordeggiante Rachela, tornando nella sua scia, alla "ricerca dei figli perduti trovò solo un altro orfano".

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