venerdì 8 ottobre 2010

Fotoreporter "impegnati", 30 anni dopo la storia continua

Quali sono le principali differenze tra il fotogiornalismo degli anni 70-80 e quello di 30 anni dopo? L’incontro dibattito che si è tenuto alla Scighera mercoledì scorso in occasione dell’inaugurazione della mia mostra “Italiani in bianco e nero 1974-1984” è stata l’occasione per discutere di questo argomento mettendo a confronto le diverse esperienze, la mia e quella di Alessandro Digaetano.
Due storie professionali diversissime: io ho iniziato a lavorare nel 1964 in un mondo analogico e in bianco e nero, pubblicando le mie foto di strada sui giornali italiani, lui ha iniziato la sua carriera nel 2001 (dopo avere fatto per 15 anni l’informatico) in un mondo ormai tutto digitale, e ha pubblicato le sue immagini di strada su diversi magazine italiani e internazionali. Ha vissuto e lavorato per sei anni in Cina (a sinistra una sua immagine scattata a Pechino) e il suo lavoro è stato premiato anche con un World Press Photo nel 2005, cioè il massimo riconoscimento mondiale del settore.
Io ho sempre rivolto il mio obiettivo verso l’Italia e le sue contraddizioni, il popolo italiano e il suo percorso di emancipazione spinto da forti convinzioni ideologiche e da un sentimento di appartenenza verso i soggetti che fotografavo. Lui ha invece, come la maggior parte dei fotoreporter della sua generazione, guardato senza pregiudizi politici al mondo globalizzato, visto come soggetto e come sbocco del suo lavoro.

Io ho imparato il mestiere fecendo una lunga gavetta artigianale, prima in camera oscura a imparare la chimica dell’immagine, poi sul campo, portando le macchine e le attrezzature dei fotografi come assistente. Lui ha fatto un corso di fotografia, si è comprato una macchina digitale professionale e un software per il suo notebook. Io, come primo lavoro da fotoreporter, sono partito in treno per Zurigo con il compito di fotografare gli emigrati italiani espulsi dalla Svizzera, lui invece ha preso un aereo per l’Egitto con destinazione Gaza e il suo obiettivo erano i profughi palestinesi. Tutti e due, insomma, avevamo al centro del nostro mirino un soggetto di classe, l’ultimo, l’anello più debole e indifeso. Le condizioni e le tecniche con le quali abbiamo dovuto misurarci erano molto diverse, ma lo spirito e le motivazioni ad agire, molto simili. Ciò significa che in questi anni tra fotoreporter italiani vecchi e nuovi, analogici e digitali, offline e online, è passato il testimone dell’impegno politico e sociale.
E questo mi ha molto confortato. Se fino a mercoledì sera avevo dei dubbi sulla validità della mia scelta di rivisitare il mio archivio fotografico rimasto dormiente per oltre 30 anni per esporlo agli occhi del pubblico del 2010, oggi ho invece avuto la prova che anche questo ritorno al futuro ha avuto un senso.

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